Il non detto, cioè l’insieme di malesseri, disagi e insoddisfazioni (ma anche, all'opposto, i motivi di soddisfazione) non espressi apertamente, è presente anche al di fuori del mondo lavorativo. In azienda, però, può incidere negativamente sul corretto funzionamento dell’organizzazione, sul rispetto dei piani, sul clima. Ecco perché è importante riuscire a stanare e analizzare queste opinioni non comunicate a capi e colleghi. Scopriamo come

Durante la mia lunga esperienza di direzione HR mi sono capitati vari episodi che potrebbero costituire casi di profonda riflessione per il management.

Situazione 1
Antonio F. chiede un colloquio con il suo capo e un rappresentante della direzione HR. È un collaboratore considerato un ottimo professional che gestisce in totale autonomia un certosino lavoro nell’area delle statistiche di vendita. Sporadicamente ha fatto richiesta di poter avere un livello contrattuale superiore e un aumento di stipendio. Per ragioni varie, legate alle difficoltà economiche dell’azienda, negli ultimi anni non ha ricevuto alcun riconoscimento. Il suo capo ha sempre detto di stimarlo ma di ritenerlo un profilo “che tanto non se ne andrà mai dall’azienda”.

Antonio F. nel corso dell’incontro comunica le sue dimissioni irrevocabili. Il suo capo è evidentemente contrariato. Gli chiede le motivazioni. Antonio F. racconta per quindici minuti una lunga storia fatta di frustrazione, d’isolamento, di problemi con i colleghi e in genere con l’azienda. Il suo capo ne prende atto e lo rimprovera di non avere mai esternato questa sofferenza.
Comunque sia, rendendosi conto che la sua improvvisa dipartita creerà nella funzione notevoli problemi, gli fa un’immediata offerta economica e contrattuale. Antonio F., ovviamente, rifiuta e, anzi, dimostra ancora più astio nei confronti del suo capo e dell’azienda.

Come Direzione HR proviamo inevitabilmente un senso di colpa per non avere mai compreso questo disagio. Il problema è che siamo consapevoli di quanto “non detto” ci sia in azienda e di quanto poco i primi gestori delle risorse, in altre parole i capi diretti, si curino minimamente di comprendere questi sentimenti inespressi. Per poi rendersene conto quando oramai è troppo tardi.

Situazione 2
Patrizia G. è una risorsa considerata di talento in modo acclarato. Ha sempre ricevuto aumenti di stipendio negli ultimi anni, coinvolta in progetti importanti, inviata a rappresentare l’azienda in convegni e incontri internazionali, inserita sempre nelle liste dei talent aziendali. È oggettivamente una junior controller eccezionale con un’abnegazione al lavoro incredibile.Sempre sorridente, positiva, proattiva.
Un bel giorno Patrizia G. dà le dimissioni mandando un’email e non si presenta al lavoro.

Come HR convochiamo immediatamente il suo capo diretto, gli comunichiamo le dimissioni (che ignora) e cerchiamo di analizzare cosa possa essere accaduto, di là dall’avere trovato sicuramente una prospettiva più allettante di quella attuale. Il suo capo diretto dimostra di non essere assolutamente in grado di comprendere altre motivazioni.
Dopo qualche giorno incontro direttamente Patrizia G. Mi dice che ha colto un’opportunità del tutto comparabile a quella attuale ma a quel punto mi rovescia un oceano di sofferenza essenzialmente legato a un concetto: non ha mai avuto, a parte i riconoscimenti formali, un dialogo con il suo capo o comunque la possibilità di esporre ad altri manager una sua idea innovativa nell’impostazione dei processi di controllo. Questa cosa l’ha fatta sentire un ingranaggio che produce numeri e report ma non in grado di dare un contributo di crescita alla propria organizzazione.

Le ho chiesto perché non ne avesse mai parlato con il suo capo o con qualche collega della funzione HR. Mi ha risposto che lei le sue idee le ha esposte, anche in forma scritta, ma nessuno le ha dato un feedback. Questa cosa l’ha fatta sentire, al di là delle parole di stima, un numero e nulla più. Non detto. Non capito. In tempo.

Potrei fare innumerevoli esempi, ma credo ciascuno abbia vissuto situazioni del genere in azienda. Il non detto impera anche nella vita al di fuori dell’azienda, ma in azienda genera problematiche che vanno a incidere sul corretto funzionamento dell’organizzazione, sul rispetto dei piani, sul clima.
Lungi dal trattare il tema del non detto sul piano psicologico, vorrei soffermarmi invece su alcune modalità pratiche per limitare questa “piaga”, con riferimento in particolare al comportamento dei manager nei rapporti con collaboratori, colleghi e anche capi. Perché di “piaga” si tratta ed esige rimedi.

Dimensioni del non detto
Il fenomeno del non detto può coinvolgere tutti. Partiamo da noi stessi nella dimensione del nostro contesto lavorativo. Guardiamoci dentro e proviamo a scrivere in un foglio (o un modulo Excel):

a) le cose che avremmo voluto vedere realizzate in azienda e di cui non abbiamo mai fatto menzione ne’ con i nostri capi, ne’ con i nostri colleghi;

b) le cose che non ci piacciono in azienda e che non abbiamo mai evidenziato (neppure ai nostri più affezionati colleghi o amici);

c) le cose che invece ci piacciono o ci soddisfano in azienda, ma di cui non abbiamo mai parlato con nessuno.
Se facciamo questo esercizio con molta onestà ci costruiremo già una bella mappa di quanto non detto esiste nella nostra sfera interiore.

Proviamo a rifare lo stesso esercizio pensando a un nostro collaboratore o collega.

Ovviamente in questo caso non possiamo avere un’immediata verifica se non parlandone con il collaboratore o collega stesso, ma aspettiamo un attimo. Poniamoci solo il dubbio. Il dubbio riguardante la “vera” e profonda posizione emozionale, motivazionale della persona cui abbiamo pensato. Ci accorgeremo di fare questo esercizio pensando razionalmente alle cose che la persona ci ha trasmesso verbalmente o attraverso alcuni tratti comportamentali o atteggiamenti. Poi potremmo in effetti chiederci se dietro ad alcuni silenzi o mancanza di manifestazione su alcuni temi (le cose che piacciono, che non piacciono, ecc.) ci sia in effetti qualche cosa di inatteso…

Fermiamoci per il momento qui. Dovremmo avere preso atto che in effetti, come nel nostro caso, può esistere una dimensione non emersa e non manifestata di malessere, disagio, insoddisfazione (ma anche al contrario, per altre ragioni, di soddisfazione, di piacere). Ripensando a noi stessi chiediamoci a questo punto, a fronte di ciascun item dei punti a, b e c, per quali ragioni non abbiamo mai condiviso questi punti con qualcuno.

Che cosa ci ha inibito ?

Potremmo enumerare una serie di fattori, dai più banali ai più profondi:

- relativa importanza del contenuto. Certi temi non attengono minimamente alla vita d’azienda, per cui non è utile condividerli;
- riservatezza;
- paura di ledere la nostra immagine;
- paura di generare tensioni inopportune esprimendo un giudizio non richiesto;
- paura di mostrare debolezze;
- paura di generare conflitti;
- paura di ledere la sensibilità di un collega o di un capo;
- paura di incomprensioni;
- paura di atteggiarsi inutilmente (esprimendo ad esempio un pensiero positivo);
- paura di generare aspettative (sempre esprimendo un giudizio positivo);
- percezione dell’inutilità della condivisione;

Senza proseguire in chiave psicologica questa analisi, non è il nostro fine, poniamoci un’ultima domanda con riferimento alle cose che ci siamo tenuti dentro.

C’è qualcosa che, ripensandoci, sarebbe stato utile comunicare agli altri? Se sì a vantaggio di chi o cosa ? A vantaggio nostro, di un nostro collega o capo o in generale a vantaggio della nostra azienda ?
L’analisi del senno di poi è tipicamente inutile, ma in questo caso ci deve spingere ad accendere un campanello di allarme, un warning, una piccola luce nella nostra interazione con colleghi e direi, specialmente, con i collaboratori.
Dovremmo realizzare a questo punto, partendo dal nostro personale esempio, che ci sono in azienda situazioni di non detto che possono essere deteriori per il successo dell’azienda stessa e quindi, direttamente o indirettamente per il nostro successo.
Dietro un non detto possono celarsi disagi, paure, sfiducia, demotivazione e perdita di opportunità.
Il tema richiede, attitudinalmente, un set di semplici e precise azioni, che soprattutto un manager deve mettere in conto di compiere se condivide quest’ analisi.

Tecniche per stanare il non detto

In sintesi elenchiamo alcuni semplici step:

1) porre attenzione al detto (l’espressione verbale), al detto in modo non verbale e al non detto (che non emerge neppure dal non verbale) – partendo dal presupposto che spesso in azienda il non detto è più estensivo di ciò che è formulato in modo esplicito;

2) sviluppare un set di domande non intrusive per stanare il non detto;

3) analizzare le risposte e trovare una chiave di verifica di ciò che è vero e di ciò che è di facciata, riformulare domande e generare negli altri la sincera percezione della volontà di comprendere almeno le cose importanti che per qualche motivo si tengono celate
Ovviamente occorre nell’approccio evitare morbosità e invasione della sfera personale. Deve essere chiaro che nessuno vuol fare lo psicologo ma adeguare il livello di comprensione alla natura del ruolo nell’organizzazione.

1) Porre attenzione
Questa tecnica non richiede competenza, ma un orientamento individuale che vada al di là della sfera di superficialità nei rapporti in azienda. Se sei un capo sei normalmente orientato alle tue priorità e le persone che ti circondano sono spesso come ombre che ti attorniano, una presenza scontata che riacquista fisicità se ne hai bisogno. Quando arrivi in ufficio al mattino ti ritrovi a dire, nella norma, frasi fatte, e se ci pensi neppure ascolti con attenzione le risposte che ti arrivano.
La tecnica e l’esercizio per stanare il non detto partono proprio da un movimento interiore paragonabile a una messa a fuoco. Porre attenzione, cercare di cogliere anche cosa c’è dietro un silenzio, contemplare un collega o collaboratore che lavora, è già un cambiamento di prospettiva. Focus sull’altro. Mica banale!

2) Domande per stanare il non detto
Non è così facile. Il tutto nasce dal movimento interiore del porre attenzione verso l’altro. Qualunque sia l’interazione naturale (“ciao, come va ?, dormito bene ?”) incontrando l’interlocutore occorre trovare la forza per aprire un piccolo set di quesiti che vanno al di là della norma. Facciamo alcuni esempi, anche se come regola questa fase deve implicare una serie di domande aperte più o meno correlate tra loro partendo da alcuni pretesti definiti in considerazione del momento (quindi da valutare nella situazione):

se non avessimo il nostro programma di lavoro cosa ti piacerebbe fare di diverso questa mattina ?

• cosa ne pensi della situazione attuale qui in azienda ?

• come vedi l’andamento del progetto in corso ?

• cosa faresti per accelerare i tempi ?

• cosa faresti per coinvolgere maggiormente i tuoi colleghi nel progetto ?

• cosa ti è rimasto del chiarimento sugli obiettivi di questa ristrutturazione ?

Un primo set di domande di questo tipo dovrebbero mostrare in genere la reattività e il coinvolgimento (forse la sorpresa del collaboratore non avvezzo a dialogare con te).
A questo punto seguendo uno qualsiasi dei temi lanciati potresti tentare di porre le domande un po’ meno aperte che però devi cercare di leggere in termini di manifestazioni non verbali:

• c’è qualcosa che non mi dici (in merito ad un particolare tema) ?

• spiegati meglio;

• ho capito bene, mi stai dicendo questo ….. (riformulazione) ? E’ cosi ?

• fammi capire, ho la sensazione che non mi stia dicendo qualcosa;

• ti senti bene in questa situazione ?

• stai imparando da questa situazione ?

• ti sembra di essere ben supportato nell’affrontare questa situazione ?

A questo punto dovresti avere ricevuto una serie di risposte.
Probabilmente avrai colto un po’ di sorpresa da parte della controparte non avvezza a simili scambi di idee. Non è un problema. Interrompi il colloquio e prendi nota delle risposte. Devi dedicare ancora un po’ del tuo tempo a una breve analisi.

3) Analisi delle risposte e successive riformulazioni
Devi essere consapevole che hai già sperimentato due cose fuori dalla prassi corrente. Hai focalizzato l’attenzione sull’altro e hai fatto una serie di domande inaspettate. Certamente avrai notato una reazione (stupore, fastidio, imbarazzo). Ti sarai fatto un’idea del livello di trasparenza e verità sulla base della lettura del non verbale, degli sguardi, dei movimenti del corpo.
Non è necessario né essere psicologi né esperti di comunicazione. Tutti noi facciamo considerazioni su quello che ci dicono gli altri soprattutto fuori dal lavoro, se ne abbiamo interesse.
Sempre se ne abbiamo interesse, nella vita di tutti i giorni facciamo considerazioni anche sui silenzi e sul non detto di famigliari, amici ecc.
Se ci mostriamo attenti (sensibili) ai silenzi probabilmente saremo, se non diventiamo ossessivi, molto amati.

Tornando alla nostra situazione in azienda ripensiamo a freddo alle risposte ricevute alle nostre domande del punto precedente.
Il moto interiore della riflessione sulle risposte ci può dare indizi sia sulle cose tangibili (detto) sia su segnali più o meno forti in merito a qualcosa non precisamente esplicitata.
Questa presunzione rispetto al non detto può legittimare il ricorso ad una sessione supplementare di domande, soprattutto nella logica della riformulazione: ad esempio, “ripensavo a quello che mi stavi dicendo ieri in merito alla situazione… Sei sicuro che mi hai detto tutto quello che pensi veramente ? Hai delle altre visioni in proposito? Mi sembra che ci sia qualcosa che non ti rende sereno in merito… Fammi capire meglio quanto affermavi ieri…”
Qualcuno potrebbe a questo punto cominciare a pensare: stiamo trasformando i manager in psicanalisti ? Non rischiamo di diventare intrusivi e morbosi ? Non creiamoci alibi per giustificare il nostro disinteresse.

Comprendere e trattare il non detto
Se attraverso le domande dovessimo stanare un po’ di non detto da parte di un collaboratore dovremmo considerare di compiere almeno due movimenti tangibili:

1) comprendere le cause del silenzio;

2) valutare e discutere le soluzioni.

Portata in superficie anche una sola problematica inespressa da parte di un nostro collaboratore, dovremmo a questo punto di fatto consolidare il nostro ruolo di coach (stiamo facendo in realtà né più né meno del coaching, con la sola differenza che nessuno ci ha commissionato l’intervento).
Attraverso successive brevi chiacchierate e domande ad hoc diventa utile comprendere e se possibile rimuovere tutte le cause del silenzio.
Scopriremmo e forse faremmo scoprire che ci sono inibizioni a volte dettate da false rappresentazioni (specie le paure spesso non coincidono con la realtà). Si veda ad esempio la rappresentazione che si forma nella testa dei collaboratori derivante dallo status di un responsabile che non fa cogliere proprio la disponibilità di quest’ultimo a confrontarsi su un piano molto umano e paritetico, senza rischio di giudizio e negative conseguenze. A questo proposito possiamo affermare che molto spesso la strutturazione delle grandi aziende crea, tra le pieghe di organigrammi pieni di ruoli dai titoli altisonanti, devastanti sacche di non detto nascoste dietro formalismi eccessivi.
Altro passo, e qui però dovremmo scrivere un trattato ad hoc, è ragionare con il collaboratore sulle soluzioni ad un problema profondamente sentito e mai comunicato. Qui casca l’asino. La soluzione può essere facile, difficile, impossibile. La cosa importante, insegnano i coach professionisti, è che emerga, per quanto possibile, dallo stesso coachee. Saremmo però già a questo punto in una dimensione di grande successo.
Deve essere chiaro che l’orientamento agli altri è un processo faticoso e complesso e stanare un’esigenza o un problema non esplicitato non è che il punto di partenza, che può essere vanificato se non si giunge alla condivisione di concreti piani di azione per affrontare ciò che è emerso. Ma accontentiamoci per oggi di insistere nella condivisione di un semplice punto di partenza.

Conclusioni
Poiché la dimensione del non detto in azienda è a mio avviso una criticità, vediamo se riusciamo a condividere almeno un concetto chiave: il solo pensare al non detto è uno switch nell’orientamento di un manager verso gli altri.
Ripercorriamo le domande iniziali che ci siamo fatti pensando a noi stessi, a quanto abbiamo di inespresso dentro di noi e quanto avremmo voluto comunicare in una certa situazione per il nostro bene o per il bene della nostra organizzazione.
E poniamoci l’ultima cruciale domanda, per oggi:

Quanto ci avrebbe infastidito un colloquio aperto scaturito dal nostro capo, soprattutto cogliendo nei suoi occhi un’onesta propensione a darci importanza? Semmai nuova, o mai espressa, e con tutto il tempo necessario!

Ritengo che l’attenzione al non detto faccia parte di un percorso di sviluppo profondo delle attitudini manageriali tanto più importante in momenti difficili, in cui fiducia e trasparenza sono condizioni essenziali per il buon funzionamento di un team.

Tommaso Raimondi, HR & Org. Dev. Consultant at Messe Frankfurt Italia / Management Consultant and coach with Zenger & Folkman, Iocap

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